
In Su un processo Eco ricorda un altro caso che sul finire degli anni Sessanta aveva scosso e polarizzato l’opinione pubblica, con modalità e motivazioni simili al processo Sofri, pur se con un’eco minore. Su quell’episodio - oggi praticamente dimenticato - e sul processo che ne era conseguito, era stato pubblicato il volume che qui vediamo, a cui Eco aveva contribuito con un testo dal titolo Le parole magiche, poi confluito nella sua raccolta di saggi Il costume di casa. Evidenze e misteri dell'ideologia italiana del 1973 (Eco lo ricorda nella nota 3 di Su un processo, specificando che sicuramente il volume sul caso Braibanti era irreperibile nelle librerie). Gli eventi che avevano coinvolto - e travolto - Aldo Braibanti sono riassunti così in Su un processo:
«Un oscuro professore di provincia - tra l’altro non l’ho mai conosciuto, né prima né dopo - era stato accusato di “plagio”: di avere cioè sedotto e irretito due giovanotti (si badi bene, adulti) inducendoli a vivere con lui un rapporto omosessuale e - ciò che pareva peggio - una vita di bohème e una serie di idee che andavano dal marxismo alle opinioni atee del filosofo ebreo [sic] Baruch Spinoza».
Come il processo Sofri, anche quello a Braibanti era «stato condotto violando tutte le regole della logica e della ragionevolezza» dal momento che «semplicemente non esisteva il reato». Braibanti viene assolto in appello. Perché Eco ricorda questo episodio?
«Perché alla fine gli interventi meditati e mirati sul nodo essenziale della vicenda (il processo era viziato) hanno certamente influito su una riconsiderazione più equilibrata del caso. Se invece si fossero viste per le strade manifestazioni di omosessuali che chiedevano la liberazione di Braibanti perché era uno dei loro, ritengo che Braibanti sarebbe ancora in galera».
Ugualmente deboli, a suo avviso, se non dannosi, erano stati per Sofri gli argomenti di coloro che lo difendevano sulla base del fatto che lo conoscevano bene e ritenevano che non avesse potuto commetere il reato di cui era accusato. Molto meglio sarebbe stato avere più interventi razionali e ponderati come quello di Ginzburg, che pur considerando l’imputato uno dei suoi migliori amici, si occupava di come era stato condotto il processo e dell’assurdità dell’accusa, senza mettere in campo elementi legati alle relazioni personali.
Sotto il nome di plagio. Studi e interventi sul caso Braibanti, Milano, Bompiani, 1969.