Fa parte de Il Cinema Ritrovato 2020
Marzo 1960. À bout de souffle. Avevo quindici anni. Godard ventinove. Faceva dire a Belmondo (rivelazione di quell’anno): “Siamo tutti morti in libera uscita”. Non sapevo ancora che fosse una citazione di Lenin, né che Mozart potesse tradurre al meglio i sentimenti di un anarchico. Ad ogni modo, 87 minuti dopo ero letteralmente ridotto all’ultimo respiro, e per sempre adulto. Godard, allora critico ai “Cahiers du cinéma”, autore di alcuni cortometraggi, si ‘impadronisce’ di una breve sceneggiatura di Truffaut che “non gli piaceva” e gira in quattro settimane, in interni ed esterni autentici, a Parigi e a Marsiglia, questo capolavoro ‘nouvelle vague’. Sartre, Cocteau, Jeanson gridano al miracolo, ma non sono i soli. Il grande pubblico decreta il successo di questa storia illuminata da Jean Seberg. Michel, un anarchico ladro di automobili, uccide il poliziotto che lo insegue in moto. Tornato a Parigi ritrova Patricia, la sua amica americana, e riesce a ridiventarne l’amante. La convince a partire con lui per l’Italia. Ma la polizia ha scoperto la sua identità e lo sta braccando. Patricia lo denuncerà e Michel verrà ucciso. Godard dirà: “È un documentario su Belmondo e Seberg”. Detto con ironia, è proprio questo: la discrepanza tra due lingue, psicologica per Patricia, poetica per Michel; le stesse parole per un significato diverso. Quando ha la meglio sulla poesia la realtà si traduce così: in variazioni sulla morte. Insomma, fino all’ultimo respiro. Non rivedere questo film (per la seconda o la centesima volta) sarebbe, come è stato scritto allora, privarsi di emozioni tra le più belle e forti che il cinema abbia proposto in questi ultimi tempi.
Jean-Claude Izzo, “Cinéma”, n. 437, 13-19 aprile 1988
À bout de souffle appartiene, per sua natura, al genere di film in cui tutto è permesso. Qualsiasi cosa facessero i personaggi, poteva essere integrata al film. Era il punto stesso di partenza del film. Mi dicevo: c’è già stato Bresson, adesso c’è Hiroshima, si chiude un certo genere di cinema, forse è finito, mettiamo la parola fine, facciamo vedere che tutto è permesso. Quello che desideravo fare era partire da una storia convenzionale e rifare, ma in maniera diversa, tutto il cinema che era già stato fatto. Volevo anche dare l’impressione di scoprire o di sentire i procedimenti del cinema per la prima volta. L’apertura a iride serviva a far vedere che era permesso ritornare alle origini del cinema e la dissolvenza incrociata dava l’impressione d’essere stata appena inventata.
Jean-Luc Godard in Spécial Nouvelle Vague, a cura di Jean Collet, Michel Delahaye, Jean-André Fieschi, André S. Labarthe e Bertrand Tavernier, “Cahiers du cinéma”, n. 138, dicembre 1962, trad. di Adriano Aprà in Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano 1981
Accompagnamento al piano di Daniele Furlati
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In caso di pioggia, la proiezione si sposterà al Teatro Manzoni, Cinema Arlecchino e Cinema Jolly